Vista dell' ingresso principale dell' ospedale Consolata (FILEminimizer)

Federick – Il Racconto di Clara Pautasso

Ci sono persone che passano nella nostra vita e lasciano insegnamenti per sempre. Non le dimentichi più, possono “passare” o “rimanere” per più tempo; non importa il tempo, conta il loro messaggio, l’intensità con cui i cuori riescono a comunicare. Federick è una di queste persone.
Sono tanti i racconti africani che si possono scrivere, io vorrei dedicare le mie parole a coloro che ho curato, di cui mi sono presa cura, che mi hanno fanno faticare, arrabbiare, commuovere e
gioire.
Vorrei dedicare i miei scritti ai miei più grandi maestri, gli ammalati, così che possano continuare a vivere perché nessuno muore mai davvero se continua a vivere nei cuori di chi resta.


Federick è un giovane uomo di circa 40 anni arrivato ad Ikonda per dolori gastrici ed addominali.
La diagnosi appare fin da subito infausta: tumore gastrico avanzato, ma si cerca di provare l’intervento. Tecnicamente l’intervento riesce bene e Federick esce dalla sala operatoria con tre quarti di stomaco in meno ma con la speranza di poter vivere ancora qualche anno.
Purtroppo il post operatorio evidenzia la gravità e l’entità del tumore, la sutura non regge, il tessuto è già stato intaccato dalla malattia. In ICU (la terapia intensiva dell’ospedale), Federick occupa il letto n°2, forse quello più luminoso di tutto il reparto, entrano sempre dei grandi raggi di sole da quella finestra sopra il letto. Il sole ad Ikonda non è sempre di casa, le temperature non sono quelle che si possono immaginare pensando al continente nero.

Ad Ikonda fa freddo, siamo sui monti Livingstone! Il sole quando entra nelle stanze è una benedizione.
Di tanti pazienti incontrati forse Federick è stato quello più difficile. Una mattina decise di rifiutare le cure igieniche da parte di un infermiere locale, con un sorriso furbesco disse: “voglio che mi lavi la bianca!”. Fa pensare quando in certi particolari momenti sia possibile comprendere una lingua anche se non la si conosce. Io non parlo swahili se non poche parole che mi servono per lavorare ma capii pienamente la sua richiesta e il suo intento. In quelle parole ho respirato tutto il suo rancore verso il popolo bianco, un risentimento che profumava di antico, fu una vampata improvvisa di rabbia, lui stava cercando di trasformare un gesto di cura in atto di soggiogamento ed io ne ero la vittima.


Indignata, non l’ho più guardato per tutta la giornata. Intanto Federick iniziava a dimagrire e bisognava decidere cosa fare. Un pomeriggio l’equipe chirurgica ed infermieristica dell’ICU decisero di discuterne. Federick non aveva più molto tempo da vivere, la sua ultima chance poteva essere la rimozione totale dello stomaco ma con quel grave stato di denutrizione non lo avrebbe mai superato. Così decidemmo di provare ad alimentarlo attraverso un cateterino digiunale, non potevamo ancora introdurre cibo nello stomaco visto i pochi giorni dall’intervento e sopratutto l’incertezza sulla tenuta della sutura. Ora, quale cibo dare? In Occidente abbiamo i preparati farmacologici, in Africa no! Così ogni mattina preparavo dei centrifugati, non era possibile fare altro. Ad ogni ora davamo acqua e ogni 3 ore cibo. Il cateterino era molto piccolo e impiegavo moltissimo tempo a nutrirlo. Essendo che non potevamo lasciare un’infermiere accanto al paziente per così tanto tempo iniziai a seguirlo quasi interamente io. Mi sedevo accanto a lui, lo nutrivo e lo idratavo.

Una relazione fatta di sguardi, di presa in carico, la relazione che stava andando a costruirsi fatta di gesti semplicissimi riuscì a trasformare entrambi, siringa dopo siringa si costruì un legame dove lui si sentiva accudito, abbandonò il rancore e iniziò a fidarsi e io mi feci responsabile e riuscii a guardarlo nella sua interezza. Ci scambiavamo poche parole in inglese, quelle che lui conosceva, poi il resto avveniva con gli occhi e nel silenzio. La nostra pelle non aveva più colore ora, agli occhi di entrambi eravamo fratelli!
Che parola meravigliosa! Vite diverse, lingua e cultura diversa eppure fratelli!!!


Non arrivammo mai al secondo intervento nonostante tutti i nostri sforzi. Federick conosceva il suo destino ancora prima che gli fosse detto, desiderava solo mangiare, mangiare forse per l’ultima volta perché il cibo ingerito sarebbe uscito dalla pancia e lo chiese per giorni. Lui era pronto i clinici non ancora! Non è mai facile accettare la morte da parte di chi cerca con tutto se stesso di portarti alla vita. Una mattina, dopo numerose insistenze di Federick di poter mangiare, dopo essermi confrontata con i suoi curanti, lo guardai negli occhi e gli dissi “puoi mangiare”. Mi guardò stupito, quasi sussultò perché non se lo aspettava e poi abbassò gli occhi, Federick comprese tutto! La sua sentenza era arrivata, se gli permettevamo di mangiare era perché non c’era più nulla da fare, un po’ come l’ultima sigaretta prima del patibolo, ma il suo desiderio era mangiare!


Sarebbe stato per me anche l’ultimo giorno con lui perché la mattina dopo sarei dovuta partire per
qualche giorno. Il nostro sguardo incrociato prima che io uscissi dall’ICU fu il nostro saluto ma questa volta l’ultimo.


Caro Federick da allora ancora vivi nei miei pensieri, mi hai insegnato il tuo punto di vista, la rabbia della diseguaglianza, il desiderio di rivincita. Non so per quale strano caso io sono nata sotto un tetto di mattoni e tu sotto una capanna, io vesto vestiti di qualità e tu stracci, io faccio quattro pasti al giorno e tu solo uno, io ho la pelle bianca e quindi ho valore e tu nera e allora non conti. Non conosco le risposte a tutto questo, mi spiace tanto e mi spiace tanto perché non lo trovo giusto, e so soltanto che proprio per questo motivo è mio dovere restituire. L’esserci incontrati ha insegnato ad entrambi che abbattendo i muri del pregiudizio possiamo azzerare tutto e da lì ripartire. Abbiamo vissuto da spettatori, io e te, davanti a ciò che l’amore muoveva, una grande verità e conferma, solo quando ti senti amato puoi tutto!


Clara Pautasso

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