La mia Africa non è immobile come lo scatto di un grande fotografo e neanche lenta come un
documentario su un paese lontano. La mia Africa non è il volo di un aereo da turismo che sorvola
territori sconfinati e non è neanche il lento movimento silenzioso che accompagna la ricerca degli
animali durante un safari. La mia Africa non è una tazza di tè al tramonto e neanche l’eleganza di
arredamenti coloniali. La mia Africa non è lo studio antropologico di popolazioni, usi e costumi o
l’analisi socio-politica del colonialismo.
La mia Africa è un mondo in movimento. Gli uomini, le donne, i bambini sono in continuo
movimento. Tutti camminano, tutti vanno verso qualcosa, qualcuno o verso qualche luogo. Qui i
nostri canoni di tempo, spazio, giorno, notte, cose da fare, da iniziare, da finire sono
completamente stravolti. Qui le nostre esigenze di organizzare la giornata, programmare gli
impegni, fare la spesa, preparare i pasti non hanno nessun significato. Si dorme e si mangia
quando si può, si compra qualcosa quando c’è qualcuno che la vende. Il concetto di salute non
coincide con la assenza di malattia o con la presenza di benessere ma solo con quello stato che ti
consente di continuare ad essere “in movimento”. Quando non si riesce più ad essere in
movimento forse si è malati. Forse. Forse non è una vera malattia, forse può passare, forse lo
stregone può aiutare.
La mia Africa è la mamma di Recho che porta la sua bambina all’Ospedale di Ikonda. Recho che
ha l’AIDS come la sua mamma e che a 18 mesi pesa 4 kg. La mamma di Recho non può
comprare il cibo per la sua bambina. La mia Africa è il papà di Ruth che non riesce a capire
perché la sua bambina è morta anche se lui l’ha portata a Ikonda e si sa che a Ikonda si fanno i
miracoli e quindi deve essere stato l’effetto della magia nera di qualche parente. La mia Africa è la
gioia di Elizabeth che dopo essersi trascinata a fatica sulle sue gambe storte per anni è riuscita
finalmente a camminare dopo un intervento chirurgico con l’aiuto di un deambulatore e con la
fisioterapia. La mia Africa è la mamma di Christian che è affetto da autismo. Hanno fatto un lungo
viaggio perché hanno saputo che qui si fanno degli esami speciali e c’è un Medico Pediatra che
può guarire Christian e invece gli esami non servono e io non posso fare niente. La mia Africa è il
papà di Prosper che quando gli chiedo quanto dista il suo villaggio per poter organizzare una
visita di controllo mi risponde, anziché con un numero di chilometri, con un numero di scellini che
corrisponde al prezzo del biglietto del viaggio, perché l’importante non è quanto è lungo il viaggio
in termini di tempo e di spazio ma avere abbastanza soldi per pagare quel viaggio per arrivare a
Ikonda dove c’è la certezza di essere curati nel miglior modo possibile e senza dover pagare la
corruzione ormai dilagante in Tanzania. La mia Africa è la mamma di Aneth che è stata morsa da
un serpente mentre giocava e muore dopo un lungo ricovero nell’ospedale di Ikonda perché non
ha ricevuto subito le cure adeguate nell’ospedale vicino al suo villaggio. Mentre il fagotto che
avvolge il corpo della bimba viene portato via dal reparto di Terapia Intensiva la mamma di Aneth
ringrazia tutti per essersi presi cura della sua bambina e spera che Dio ci benedica per quello che
abbiamo fatto. Trattengo a stento le lacrime mentre ascolto le sue parole: “quello che è successo
a Aneth è parte di qualcosa di più grande di noi, era scritto che Aneth non dovesse diventare
grande”.
La mia Africa a volte è incomprensibile e difficile da accettare.
Di Patrizia Stasi